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In Puglia, nella provincia di Foggia, a soli 4 chilometri dal lago di Lesina e a circa 40 da Foggia, troviamo il paese di Poggio Imperiale, il quale si adagia a 73 m.s.l.m. su un’altura del promontorio garganico, da cui gode del panorama incantevole del vicino lago di Lesina.

Poggio Imperiale, conosciuto dai locali anche con il nome di Terranova con una popolazione residente al 31/11/2019 di 2615 cittadini (dati ISTAT), confina con i paesi di Apricena, Lesina, San Paolo di Civitate, San Nicandro Garganico, tutti in Provincia di Foggia.

Il nome del comune è composto dalle parole “Poggio”, in riferimento all’altura su cui è posto e da dove si può ammirare il vicino lago di Lesina, e da “Imperiale”, in onore del principe Placido Imperiale, fondatore del paese.

la storia degli albanesi di Poggio Imperiale

Il 15 febbraio del 1753, Placido Imperiale, Principe di Sant’Angelo dei Lombardi (AV) era divenuto proprietario del Feudo “Ave Gratia Plena” che comprendeva la città di Lesina, l’omonimo lago, e vasti territori circostanti, dove fece disboscare una collina denominata Coppa Montorio, situata tra Apricena e Lesina, per costruirvi una grande masseria attorniata da alcune piccole case, una chiesetta rurale dedicata a San Placido ed una palazzina per il suo amministratore.

Così nel maggio del 1759, il Principe diede inizio ad un grande esperimento di colonizzazione: fece quindi ostruire una grande masseria con le sue dipendenze ed una piccola chiesa dedicata a San Placido ed offrì gratuita ospitalità a “chiunque volesse venirci ad abitare, promettendogli abitazione franca per tre anni”. Infatti vi giunsero circa 15 famiglie (60 persone circa) provenienti da diversi paesi, cioè da San Marco in Lamis, di Bonefro, di Portocannone, di Foggia, di Bari e di Francavilla, le quali, per tutto il 1759 ed il 1760, furono le uniche ad abitarvi. Da quel momento il paese prese il nome di Poggio Imperiale. Le abitazioni del paese erano costituite a da tanti monolocali costruiti a schiera, con tetti a pendenza unica ed una piccola finestra; ogni abitazione era munita di caminetto.


Il Principe Placido Imperiale

Ma il numero degli abitanti, secondo il Principe, risultava insufficiente, cosicché accolse volentieri le nuove richieste di ospitalità, ma solo quelle di alcuni albanesi che dicevano di essere arrivati direttamente dall’ “Albania turca”, e che vagavano per la città di Napoli.

I primi a rispondere furono degli albanesi fedeli della religione cattolica che, per sfuggire all’inasprirsi del fanatismo religioso da parte del pascià di Scutari, l’albanese Mehmed Bushati, si erano rifugiati nello Stato Pontificio ed erano stati insediati a Pianiano (frazione di Cellere in provincia di Viterbo), ma che poi avevano abbandonato la stessa Pianiano e si erano avventurati a Napoli in cerca di una nuova sistemazione.

Così, il 18 gennaio 1761, il Principe stipulò un contratto con 19 famiglie albanesi (92 persone), originarie da Bria nei pressi di Scutari, che provenivano da Pianiano; con questo contratto si concordava l’insediamento della colonia albanese nel nascente paese di Poggio Imperiale.

Secondo il contratto, il Principe consegnava ad ogni famiglia albanese due pecore e due capre e, a tutta la comunità albanese, sei somari, sette paia di buoi e altro. Le famiglie, entro quattro anni, avrebbero restituito al Principe quanto ricevuto. Il principe inoltre avrebbe consegnato loro 30 tomoli di grano al mese “del peso e misura di Puglia”, dal momento del loro arrivo sino alla raccolta dell’anno successivo.

Il principe inoltre concedeva agli albanesi, per i successivi quattro anni, l’utilizzo gratuito delle terre da usare a orto; l’occupazione gratuita delle case per cinque anni; il terreno da coltivo gratuito per tre anni; la raccolta della legna nella riserva proibita gratuita per sempre; il pascolo gratuito per sempre; infine permetteva loro di portare armi consentite.

Una volta definito il contratto, i firmatari, con le loro famiglie, si avviarono verso la nuova destinazione accompagnate da don Marco Micheli, un sacerdote cattolico proveniente da Scutari.

Intanto 18 famiglie (82 persone) di albanesi che erano rimaste a Pianiano e che erano che avevano guardato con sospetto e diffidenza l’invito del Principe Imperiale, dopo cinque giorni dall’invito del Principe, mandarono due rappresentanti a Poggio Imperiale con il compito di verificare la possibilità di trasferirsi a Poggio Imperiale. Con questo secondo gruppo, il 4 febbraio del 1761 venne stipulato l’atto per mezzo del quale gli albanesi accettarono le condizioni accordate al gruppo precedente.

I cognomi dei Capi di famiglia provenienti da Pianiano erano: Cabascio (Caboscia, Kabashi), Calumetti (Calmet), Carucci (Karuci), Codelli, Cola (Kola), Colezzi (Colizzi), Ghezza (Ghega), Ghidi, Giaca (Gjoka), Giona (Gjoni), Kalà (Hala), Kubini, Lindi, Locorezzi (Logoraci), Micheli, Midi (Mida), Milani, Natale, Nemani (Remani), Nicoli, Pali, Pietro, Prenca (Brenka), Sterbini, Zadrima (Xadrima), Zanco (Zanga).

Dagli atti della prima visita che Giuseppe Maria Foschi, Vescovo di Lucera, fece nel 1761 a Poggio Imperiale, si può riscontrare che don Marco Micheli, non trovando di gradimento il sito per l’aria malarica della zona, anzi trovandolo molto pericoloso, che convinse una parte degli albanesi ad abbandonare il posto e a fare ritorno nello Stato Pontificio, il che sarebbe avvenuto dopo solo cinque giorni di permanenza del secondo gruppo a Poggio Imperiale.

La partenza non riguardò tutti ma solo alcuni: quelli che avevano stipulato il contratto il 18 gennaio, nel mese di febbraio del 1761, andarono a Napoli dove ottemperarono alla disposizione contenuta nell’atto di concessione, restituendo al Principe quanto avevano ottenuto e quindi, il 23 marzo del 1761, tornarono a Pianiano.

In un secondo momento tornarono a Pianiano anche gli altri, partiti in ritardo perché avevano dovuto restituire al Principe quanto da lui anticipato per il pagamento del nolo dell’imbarcazione sulla quale dovevano prendere posto.


la chiesa di San Placido

Rimanevano a Poggio Imperiale solo le famiglie di Simone Gioni, Primo Cola e Michele Zadrima, che avevano deciso di restare, forse perché non furono in grado di restituire al Principe quanto anticipato per la loro sistemazione.

Nella primavera del 1761, dopo che gli albanesi avevano lasciato Poggio Imperiale, il Principe Placido Imperiale fece leggere un editto nelle chiese della Diocesi di Benevento con cui invitò la gente a popolare il nascente paese.

Il nuovo paese, in quel periodo, ospitava non solo le tre famiglie di Pianiano, ma anche diversi albanesi provenienti da altre località delle Puglie. E tutti (italiani e albanesi) erano assistiti dal “prete Simone Uladagni” (Vladagni), cappellano della Chiesa di San Placido Martire in Poggio Imperiale.

Il vescovo, durante la sua visita pastorale a Poggio Imperiale rimase al quanto “ammirato” dal fatto che il sacerdote esercitasse le funzioni parrocchiali senza essere parroco. Al Vladigni vennero proibite tutte le funzioni che competevano a un sacerdote tranne, per i successivi sei mesi, la confessione agli albanesi.

Secondo lo storico Matteo Fraccacreta (San Severo, 19/09/1772 – Torremaggiore, 23/03/1857): “... Vennero intanto quegli Albanesi in Poggio Imperiale con due loro Greci Sacerdoti Simone Bubici, e Stefano Teodoro: ma n’emigrarono dopo un anno forse per la messe non pingue del 1762 per la gelata. Presero la via di Roma, restando qui soli Simone Bubici colla moglie, e cinque figli maschi; Giuseppe Teodoro con tre figli maschi, e tre femmine, e Giovanni Bubici colla moglie, e madre. Vennero poi la famiglia Mauricchi di Scutari da Barletta, ed altri altronde. Serbarono la lingua, e l’andamento Greco, pur le basette. ... Di essi qui morì l’ultimo nel 15 febbraio 1832, Gregorio Maurizio di Scutari, e lasciò i figli Michele, e tre femmine ... ”.

Oggi, a Poggio Imperiale, degli albanesi non rimane che una via a loro intitolata e situata nel luogo dove nacque il piccolo borgo. Da questa via, nella parte più vicina alla Chiesa di San Placido, si accedeva alla dimora del Principe Placido Imperiale, conosciuta come “la Palazzina” .

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